Pseudonimo di
Iosif Vissarionovič
Džugašvili. Rivoluzionario e statista sovietico. Nato in una
famiglia molto povera, poté accedere agli studi solo attraverso la scuola
parrocchiale prima e il Seminario teologico poi. Entrando in contatto con i
deportati politici, esiliati in gran numero in Georgia, conobbe le idee liberali
e rivoluzionarie, finendo per aderire nel 1898 a un gruppo socialista
clandestino (il Partito operaio socialdemocratico russo); un anno più
tardi fu espulso per questo dal seminario e si dedicò completamente alla
militanza rivoluzionaria, organizzando scioperi e manifestazioni e animando
pubblicazioni clandestine. Nel 1902, in seguito a scontri tra i lavoratori
dell'industria petrolifera di Batun e la polizia,
S. fu arrestato e
condannato a tre anni di confino in Siberia; nel 1904 riuscì a fuggire e
da allora visse in clandestinità, lavorando per l'avvento della
rivoluzione. Nel 1903 si era consumata la divisione dei socialisti russi tra
bolscevichi e menscevichi (V. BOLSCEVISMO e
MENSCEVISMO);
S. si schierò con i
primi, sulle posizioni di Lenin, che conobbe personalmente durante i moti, poi
falliti, del 1905. In quegli anni
S. emerse come uno dei principali
dirigenti rivoluzionari del Caucaso; nel 1907 si stabilì a Baku, da dove
diresse sia le attività clandestine del partito sia quelle operative
(espropri, rapine, disordini, scioperi, ecc.). Fu più volte arrestato e
deportato, ma riuscì sempre a evadere, imponendosi a poco a poco nel
partito a livello nazionale. Nel 1912 fu eletto tra i nove membri del Comitato
centrale; recatosi a Pietroburgo ricevette l'incarico di sovrintendere alla
pubblicazione della “Pravda”, unico organo di informazione legale
del partito. Nel 1913, recatosi a Vienna per sfuggire a una nuova deportazione,
S. compose su richiesta di Lenin il saggio
Il Marxismo e la questione
nazionale, che esponeva appunto la teoria bolscevica in merito alle
problematiche nazionaliste in seno alla Russia e che divenne in seguito la base
teorica per l'assetto etnico-territoriale assunto dall'Unione Sovietica.
Rientrato in patria, fu deportato in Siberia; solo dopo la Rivoluzione del
febbraio 1917 riuscì a tornare a Pietroburgo, dove, in assenza di tutti
gli altri capi bolscevichi ancora rifugiati in Europa occidentale, svolse con
L.B. Kamenev funzioni dirigenziali. In questo breve periodo assunse posizioni
moderate e possibiliste in merito a una collaborazione con i menscevichi e con
il Governo provvisorio borghese. Solo quando Lenin giunse in città ne
sottoscrisse il programma, che prevedeva la realizzazione in tempi brevi della
dittatura del proletariato, tralasciando la fase di un Governo borghese
liberale. Poco prima della Rivoluzione d'Ottobre, fu cooptato nel
Politbjuro (ufficio politico del partito e suo organo supremo) ma non
ebbe, durante le fasi cruciali della rivoluzione stessa, un ruolo di primo piano
come fu per Lenin e L. Trotzkij. Tuttavia entrò a far parte del primo
Governo rivoluzionario come commissario del popolo alle Nazionalità
(1917-23); durante la guerra civile svolse anche numerosi incarichi ispettivi
sia di carattere militare al fronte (riportando notevoli successi presso Carycyn
che, in suo onore, fu poi ribattezzata Stalingrado) sia di carattere
amministrativo. Nel 1922 fu nominato segretario generale del Comitato centrale
del partito, carica strategica che gli consentì di ampliare la sua base
di potere e di consenso in vista della successione a Lenin. Quest'ultimo
infatti, già malato nel 1922, lo aveva indicato come suo uomo di fiducia,
salvo ricredersi, ma vanamente, poco prima della morte avvenuta nel 1924.
Valendosi di un'alleanza tattica con G.E. Zinov'ev e Kamenev
S. si
impegnò a liquidare politicamente Trotzkij, il suo maggior avversario:
contro la teoria trotzkista della “rivoluzione permanente” (in base
alla quale il Socialismo russo andava edificato entro il quadro del Socialismo
internazionale, fatto che implicava come impegno principale esportare la
rivoluzione),
S. sostenne la tesi del “Socialismo in un solo
Paese”, incentrato sul raggiungimento dell'autosufficienza dello Stato
rivoluzionario sovietico. Ottenuta l'espulsione di Trotzkij nel 1927, si volse
contro i suoi precedenti alleati (con l'aiuto di N.I. Bucharin e della
cosiddetta “destra”), salvo poi epurare il comitato centrale anche
da essi. Nel 1928
S. era saldamente al potere: continuando l'eliminazione
sistematica di ogni possibile antagonista, si dedicò da un lato a
realizzare un programma di industrializzazione rapida del Paese e di
collettivizzazione forzata delle campagne, dall'altro a estendere il sistema
delle purghe dai piani alti del partito a tutti i settori strategici della
Nazione (produttivo, militare, intellettuale). Mentre le purghe scatenate per
tutti gli anni Trenta attestavano la natura psicotica e dittatoriale di
S., zelantemente sostenuta da una classe dirigente imbelle o imprevidente
(volgendosi più volte le epurazioni contro quelli stessi che se ne erano
fatti attori in precedenza) ed esaltata da un inedito culto della sua persona, i
piani quinquennali di produzione e collettivizzazione trasformarono nel giro di
un decennio l'Unione Sovietica da Stato a economia agricola e arretrata a
potenza industriale. Tutto ciò ebbe però un prezzo spaventoso,
calcolato in milioni di morti: cinque milioni furono infatti i morti per fame a
causa della carestia del 1932-33 (mentre l'Unione Sovietica esportava all'estero
due milioni di tonnellate di frumento!), centinaia di migliaia i contadini
kulaki uccisi dagli stenti o dalla polizia per essersi opposti alla
nazionalizzazione delle terre (25 milioni di piccole aziende vennero trasformate
in 250.000 fattorie collettive); centinaia di migliaia le vittime, per lo
più giustiziate in base ad accuse inconsistenti, delle epurazioni
politiche. A tutto ciò si aggiunge un numero di deportati nei campi di
lavoro forzato durante gli anni Trenta valutato tra un minimo di 3 milioni di
persone e un massimo di 12 milioni. Per quanto riguarda la politica estera,
invece,
S. mostrò un volto più tranquillizzante: cassata
ormai l'opzione trotzkista di fomentare la rivoluzione nei Paesi capitalisti a
guida borghese, l'Unione Sovietica, a partire dal 1934-35, cominciò a
riavvicinarsi alle democrazie occidentali, per opporre un fronte comune alla
minacciosa crescita militare di Germania e Giappone. Forte della propria
autorità nella Terza Internazionale comunista (V.
INTERNAZIONALE, TERZA e COMINTERN),
S. annullò la linea fino ad allora seguita che ripudiava ogni
collaborazione con i partiti socialdemocratici e borghesi (in base allo slogan
“classe contro classe”) e avviò invece la politica del
“fronte popolare”. Mentre all'interno del Paese si procedeva alla
più drastica eliminazione di qualsiasi seppur minimo dissenso nei
confronti della linea ufficiale imposta da
S. al partito, all'estero si
propugnava un'apertura ideologica che consentiva di allearsi con tutti i partiti
socialisti o semplicemente democratici contro il nemico fascista. Con
spregiudicatezza diplomatica e strategica,
S. non si peritò
tuttavia di rinnegare in un secondo momento la politica dei fronti popolari:
quando nel 1938 la Conferenza di Monaco (V. MONACO DI
BAVIERA) rese palese l'inevitabilità della guerra,
S., il
cui interesse era quello di evitare in ogni modo il coinvolgimento in un
conflitto che l'Unione Sovietica non era in grado di sopportare, si
accordò segretamente con la Germania nazista. Le vere ragioni del Patto
di non aggressione Ribbentrop-Molotov sono tutt'oggi dibattute; ma dipesero in
qualche modo, oltre che dalla possibilità di annettere all'Unione
Sovietica la Polonia orientale, dalla convinzione di
S. che, se la guerra
si fosse concentrata a Occidente, lo scontro sarebbe stato lungo e avrebbe
esaurito militarmente ed economicamente sia il Nazismo tedesco sia le borghesie
occidentali, lasciando all'Unione Sovietica il tempo necessario per crescere e
controllare la situazione politica europea. La velocità con cui si
risolsero i combattimenti sul fronte occidentale contraddisse le previsioni di
S., ma non lo rese più accorto: ancora nel 1941 si rifiutava
infatti di credere alle voci sull'imminente attacco di Hitler all'Unione
Sovietica. Anche per questo l'esercito, assai indebolito sia nei quadri sia
nelle truppe dalle purghe del 1939, non ricevette ordini adeguati per respingere
l'attacco tedesco partito nel giugno 1941; il nemico penetrò in
territorio sovietico con facilità e venne fermato solo a dicembre alle
porte di Mosca. Da quel momento però
S., inizialmente schiacciato
dalla gravità non prevista della situazione, si mosse come un
intelligente capo militare e politico: accentrò tutte le cariche, si
affidò a esperti generali e mantenne un efficace rapporto carismatico con
la popolazione, esaltandone lo spirito di sacrificio (a ciò
contribuì ad esempio la sua decisione di non lasciare mai Mosca anche
quando era direttamente minacciata). La resistenza di Stalingrado
(V.) rovesciò le sorti della guerra
nell'inverno 1942-43 e diede a
S. un grande potere di contrattazione con
gli Alleati: le conferenze di Teheran (1943) e di Yalta e Potsdam (1945)
favorirono molto l'Unione Sovietica e sancirono il diritto sovietico a
esercitare dopo la guerra la propria influenza sull'Oriente europeo. All'interno
del Paese la propaganda poté così arricchire il culto della
personalità dedicato a
S. dipingendolo come salvatore della patria
e promotore della potenza nazionale in Europa (sovrapponendo alle componenti
ideologiche del regime anche motivi tipici della tradizione russa e zarista).
Alla fine della guerra, tuttavia,
S. optò per una politica di
opposizione con le potenze occidentali, da cui ebbe origine la cosiddetta
“guerra fredda”: egli non si accontentò di esercitare
l'influenza sovietica sull'Oriente, come stabilito dagli accordi di Yalta, ma
insediò in quei Paesi veri regimi comunisti. Allo slogan
“Socialismo in un solo Paese” sostituì il concetto di
“campo socialista”, che doveva essere protetto e difeso dagli
attacchi dei Paesi imperialisti. Con la scusa del pericolo capitalista,
S. impose un rigido controllo su tutti i partiti comunisti, con
epurazioni analoghe a quelle che erano avvenute in Unione Sovietica, che
dovevano comunque riferirsi all'Unione Sovietica in quanto Nazione-guida. A
questo scopo
S. creò il COMINFORM
(V.), che sostituì le precedenti esperienze
delle Internazionali socialiste. All'interno dell'Unione Sovietica
S.
aveva nuovamente indossato la maschera del tiranno, ordinando campagne
intimidatorie contro il
cosmopolitismo, colpendo tutti coloro che per
origini familiari, o per frequentazioni precedenti erano stati in contatto con
il mondo occidentale, la cui influenza era indicata come la fonte di mali e
corruzione per la Nazione e il partito. Ancora nel 1953
S. aveva avviato
una violenta campagna a carattere antisemita, con arresti, processi ed
esecuzioni contro un gruppo di medici ebrei accusati di aver praticato metodi di
cura nocivi su istigazione delle potenze occidentali. Gli Ebrei erano infatti
sospettati di essere potenziali spie e sabotatori del Paese perché legati
alla nascente potenza di Israele e alle forti comunità israelitiche
statunitensi: l'antisemitismo sempre latente nella cultura russa era stato
dunque camuffato da
S. in momento di lotta contro l'Occidente.
Parallelamente il dittatore, che pure godeva di una popolarità tra la
popolazione quasi idolatrica, esercitò un pugno di ferro sulla gestione
economica, ribadendo la superiorità dell'industria e del mondo operaio su
quello contadino, e promosse una linea politica fondata sull'inasprirsi e non
sull'attenuarsi del conflitto di classe. La morte di
S. mise in evidenza
le tensioni necessariamente occultate, il dissenso interno e le contraddizioni
endemiche del regime sovietico, che trovarono espressione prima negli anni del
cosiddetto disgelo e poi nel processo di “destalinizzazione”
promosso da N. Krusciov (Gori, Georgia 1879 - Mosca 1953).
Josif Stalin con Roosevelt e Churchill a Jalta